Un vaccino per il Covid-19 può essere sviluppato in tempi record?

Traduzione di un articolo uscito poco tempo fa sul New York Times, cinque esperti nel campo medico-farmacologico riuniti in una tavola rotonda rispondono alle domande più frequenti sul vaccino contro il SARS-CoV-2.

Tempistiche per la realizzazione del vaccino contro il coronavirus

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    Il New York Times è una delle testate giornalistiche statunitensi in prima linea quando si tratta di informazione ampia e approfondita, lo dimostrano inchieste e approfondimenti sempre aggiornati sui vari argomenti d’attualità. Tra questi, abbiamo deciso di tradurre un lungo articolo uscito i primi di giugno che ha come argomento la ricerca per il vaccino contro il Covid-19: a che punto siamo con gli esperimenti? Esistono farmaci alternativi validi? Quali sono i tempi previsti per l’eventuale produzione?

    Di seguito la traduzione in italiano dell’intero pezzo.


    Nella storia della medicina, raramente un vaccino è stato sviluppato in meno di cinque anni. Tra i più veloci è stato l’attuale vaccino contro la parotite, isolata a partire dai lavaggi di gola di una bambina di nome Jeryl Lynn, nel 1963. Nei mesi successivi il virus era stato sistematicamente “indebolito” in laboratorio da suo padre, lo scienziato biomedico Maurice Hilleman. Un virus indebolito e attenuato stimola la risposta immunitaria senza causare la malattia vera e propria, così diveniamo protetti dalle future infezioni dello stesso virus. Gli esperimenti sull’uomo andarono avanti per oltre due anni e il vaccino autorizzato fu rilasciato da Merck [società farmaceutica fondata in USA nel 1891 come filiale dell’omonima tedesca, n.d.r.] nel 1967.

    Anche i farmaci antivirali hanno quasi sempre richiesto decenni per essere sviluppati, le combinazioni tra loro ancora più tempo. I primi casi di AIDS furono registrati agli inizi degli anni 80 ma ci volle più di un decennio perché un mix  di tre farmaci, oggi divenuto un pilastro della terapia, venisse sviluppato e validato. Tutt’oggi continuiamo a studiare nuovi  medicinali contro l’HIV ma, ricordiamo, non esiste ancora un vaccino. Nonostante questo, il termine ultimo per la creazione di un vaccino contro il SARS-CoV-2, il virus che causa il Covid-19, è fissato notoriamente a 12 mesi, 18 al massimo.

    Riuscire a fare una cosa del genere è verosimilmente l’impresa più importante delle ultime generazioni. Il Times ha riunito (virtualmente, s’intende) una tavola rotonda di esperti per aiutare a comprendere l’assurda complessità di tale sfida e lo straordinario sforzo collaborativo che ha ispirato.

    I partecipanti

    Siddhartha Mukherjee (moderatore) è professore associato di medicina alla Columbia University e un medico ricercatore dei tumori. Ha vinto il premio Pulitzer per la non-fiction con “L’imperatore del male: una biografia del cancro” (2011, Neri Pozza) e recentemente è stato nominato nella commissione speciale del Governatore Cuomo per ripensare New York.

    Dan Barouch è direttore del Centro di ricerca di virologia all’istituto Beth Israel Deaconess Medical Center di Boston e professore di medicina alla Harvard Medical School.

    Margaret (Peggy) Hamburg è la segretaria esteri della National Academy of Medicine ed è stata commissario della Food and Drug Administration dal 2009 al 2015.

    Susan R. Weiss è professoressa e vice-presidentessa del Dipartimento di microbiologia presso l’Università della Pennsylvania, co-direttrice del Penn Center for Research on Coronaviruses and Other Emerging Pathogens.

    George Yancopoulos è co-fondatore, presidente e capo scientifico di Regeneron [azienda di ricerca scientifico-farmaceutica, n.d.r.].

    Cosa serve per trovare un vaccino

    Yancopoulos: Molte persone faticano a capire che inventare e sviluppare con successo un farmaco o un vaccino è tra le cose più difficili da fare, e questo si riflette nei numeri: la maggior parte delle ricerche fallisce, la FDA (Food and Drug Administration) approva solo dai 20 ai 50 nuovi farmaci l’anno, nonostante centinaia di grandi istituzioni mediche e compagnie di biopharma impieghino migliaia di ricercatori e miliardi di dollari ogni anno per lavorare su nuovi vaccini e nuove medicine. Ogni successo arriva, di solito, dopo molti anni, se non decenni.

    Hamburg: In pratica, per quanto riguarda il Covid-19, stiamo procedendo a velocità record rispetto alla storia dello sviluppo dei vaccini.

    Mukherjee: Potreste provare a dare qualche cifra sulla velocità con cui potremmo arrivare ad avere un vaccino? L’idea di cui sentiamo parlare, tra i 12 e i 18 mesi, è realistica?

    Barouch: La speranza è averlo entro un anno, ma non ci sono garanzie. La proiezione va ridefinita con il passare del tempo, un anno significherebbe che tutto vada secondo i piani da qui in poi, un’impresa mai fatta prima; la sicurezza non può essere compromessa.

    Hamburg: Tra 12 e 18 mesi sarebbe un segnale molto positivo, ma è una visione ottimistica.

    Weiss: Sono d’accordo.

    Mukherjee: Ragionare se esistono modi perché questo avvenga ancora più rapidamente, parliamo di come il processo di ricerca di un vaccino procede solitamente. In linea generale, cos’è un vaccino e come funziona?

    Barouch: Lo scopo di un vaccino è scatenare la risposta immunitaria contro un virus o un batterio, così quando la persona vaccinata è esposta a tale virus o batterio, il sistema immunitario lo blocca e la persona non si ammala. Le cellule immunitarie che creano anticorpi si chiamano linfociti-B: una volta stimolati dal vaccino, alcuni linfociti possono durare anni e proteggere la persona per lungo tempo.

    Hamburg: Normalmente lo sviluppo di farmaci e vaccini inizia con un lavoro “preclinico” che serve a identificare la natura della malattia in questione.

    Weiss: In laboratori di virologia come il mio cerchiamo di isolare le proteine virali che un vaccino può prendere di mira, di solito quelle che si attaccano al recettore della cellula-ospite. Tutti i coronavirus hanno la famosa la proteina spike (“proteina a punta” in italiano) che regala la morfologia “a corona”: si attacca ad un recettore – di solito un’altra proteina – della membrana cellulare esterna e il materiale genetico del virus, in questo caso un RNA complesso, entra dentro la cellula, iniziando a riprodursi insieme a lei finché la persona si ammala. È possibile isolare la proteina virale che interagisce con il recettore cellulare e creare il vaccino a partire da questa: la proteina spike è un candidato particolarmente allettante perché si trova sulla superficie del virus, la zona più visibile al sistema immunitario.

    Mukherjee: Quali sono i differenti approcci che si possono adottare per trovare un vaccino?

    Barouch: Di solito si lavora sul virus inattivo: significa far crescere il virus in laboratorio, nelle cellule o nelle uova, e poi disattivarlo per renderlo incapace di infettare le cellule ma capace di indurre la risposta immunitaria. Una compagnia cinese, la Sinovac Biotech, ha già un vaccino in sperimentazione creato a partire dal SARS-CoV-2 disattivato. I pro sono che esiste una lunga storia clinica di vaccini efficaci trovati in questo modo, come quelli contro la poliomielite o l’influenza; di contro, non tutti i test hanno provato che il virus sia davvero disattivato, la malattia potrebbe ripresentarsi.

    Molti altri gruppi di ricerca stanno lavorando su approcci basati sul gene, DNA o RNA, vaccini che sfruttano una parte della sequenza genetica del virus – alcune volte anche solo un gene.

    Rimane aperta la questione su come immettere il gene nelle cellule umane. Un “vaccino-vettore” usa un mezzo – per esempio l’adenovirus ricombinato, una sorta di contenitore di virus innocuo, come il comune raffreddore – per trasportare la proteina dentro le cellule delle persone; per esempio, si potrebbe prendere il DNA della proteina spike del SARS-Cov-2 e infilarla nel DNA del comune raffreddore, attraverso l’ingegneria genetica, che la porterebbe dentro gli organismi senza possibilità di replicarsi. 

    Altri approcci ancora prevedono l’utilizzo di proteine pure, la proteina spike da sola, come vaccini.

    Yancopoulos: Il vaccino basato sul gene è stato usato nel caso dell’ebola, gli scienziati avevano scoperto la proteina GP che permetteva l’invasione delle cellule umane e ne hanno ricavato il vaccino. Sono riusciti ad infilarla dentro un virus benigno e quando questo ha infettato le cellule, il corpo l’ha riconosciuta come “estranea” e sviluppato anticorpi.

    Mukherjee: L’idea di Moderna [azienda biofarmaceutica americana, n.d.r.] invece è usare direttamente un frammento di gene virale, da solo; appena è stato sequenziato il  genoma del SARS-Cov-2, a gennaio, è stato possibile pensare a questa opzione. Per ragioni che ancora fatichiamo a comprendere, le cellule del corpo assorbono il gene anche senza un vettore e riproducono la proteina virale a partire da questo. Viene riconosciuta come estranea perché il corpo non l’ha mai vista e scattano gli anticorpi. Poiché non è trasportata da alcun virus, il vaccino derivante potrebbe essere più facile da produrre inizialmente ma difficile da gestire in grandi quantità.  Fino ad oggi come è andata con vaccini del genere?

    Barouch: Non esistono vaccini basati su DNA o RNA approvati. Alcuni sono stati testati su piccola scala per la sicurezza e la capacità di indurre la risposta immunitaria ma non sono mai arrivati ai grandi numeri o all’uso clinico.

    Mukherjee: Quindi dobbiamo essere cauti. I dati che Moderna ha diffuso a maggio riportavano la formazione di anticorpi su 8 pazienti ma se e per quanto tempo questo possa essere uno scudo contro il SARS-Cov-2 è una domanda ancora aperta. Inoltre abbiamo bisogno di capire le quantità necessarie alle persone anziane per guadagnare l’immunità a lungo termine, laddove il sistema immunitario potrebbe essere già indebolito. Una volta sviluppata una versione del vaccino, si passa ai test sugli animali: quali  sono impiegati per il Coronavirus? Come fanno gli scienziati a sapere quali animali è meglio utilizzare?

    Weiss: L’ ideale è quello che subisce le malattie nel modo più simile possibile all’uomo – sintomi simili, stessi organi colpiti, risposta immunitaria che imita quella umana e così via. Il modello animale serve anche a dimostrare se il virus può essere trasmesso da un infetto a un non-infetto, per capire la meccanica del virus, per determinare l’efficacia del vaccino o l’impatto di un farmaco. Per il Covid-19, al momento, si stanno utilizzando criceti topi, furetti e scimmie; nessuno di questi è perfetto ma ognuno di loro ci dice qualcosa in più sulla risposta immunitaria.

    Mukherjee: Dan Barouch, tu hai lavorato con scimmie e vaccini creati con l’ingegneria genetica. Ci puoi dire qualcosa in più a riguardo?

    Barouch: Abbiamo collaborato con Johnson & Johnson [multinazionale farmaceutica statunitense, n.d.r.] allo sviluppo di un vaccino contro il SARS-Cov-2 ricombinando un adenovirus vettore (un comune raffreddore reso innocuo) per trasportare la proteina spike nelle cellule.  Ci sono due questioni scientifiche cruciali:  esiste una prova che l’immunità indotta da infezione protegga da un nuovo incontro con il virus? Secondo, quali vaccini portare avanti nella sperimentazione? Abbiamo da poco pubblicato qualche prima risposta.

    Nel primo esperimento abbiamo infettato nove scimmie con il Coronavirus attraverso naso e polmoni e tutte hanno sviluppato una polmonite virale, simile alla versione umana ma più lieve. Trentacinque giorni dopo abbiamo esposto gli animali ad una seconda ondata di virus scoprendo che erano tutti protetti. È uno snodo importante della questione, storicamente è stato provato che è più facile sviluppare vaccini quando c’è già una protezione immunitaria naturale di base; per l’HIV, ad esempio, quest’ultima manca ed è uno dei motivi per i quali il vaccino contro è così difficile da trovare.

    Nel secondo esperimento abbiamo sviluppato una serie di vaccini-prototipo, questa volta del tipo “DNA nudo”, avendo come base la proteina spike, alcuni con il codice intero e altri solo con alcune parti. I prototipi sono stati immessi in venticinque scimmie mentre in 10 è stata iniettata soluzione salina, due dosi per cavia. Sei settimane dopo la prima dose le scimmie sono stata esposte al virus e quelle vaccinate sono risultate protette: in otto il virus non era presente, le altre lo avevano a livelli molto bassi. La quantità di anticorpi stimolata era correlata al livello di protezione, un dato utile negli studi di monitoraggio. La versione con il codice genetico intero della proteina sembra aver funzionato meglio.

    Insomma, sia l’immunità naturale sia quella vaccino-indotta possono esistere nelle scimmie e la quantità di anticorpi potrebbe funzionare da biomarcatore per la valutazione dell’efficacia del vaccino; avremo bisogno di provare il tutto sulle persone.

    Mukherjee: Oltre a questo e al vaccino di Moderna ci sono molte altre sperimentazioni. Una è quella di Oxford: cosa sappiamo a riguardo?

    Barouch: Il vaccino di Oxford si basa sul raffreddore di uno scimpanzé che codifica anche la proteina spike. I dati dimostrano che nelle scimmie è stato ridotto l’impatto nel polmone ma non nel naso e sono iniziati i primi esperimenti sugli umani.

    Dalla scoperta alla cura

    Mukherjee: Una volta che sai con quale vaccino fare i test, qual è il passo successivo?

    Barouch: Il processo inizia con una produzione limitata, poi con le fasi 1, 2 e 3 di sperimentazione clinica, l’approvazione e infine la produzione su larga scala. Per il SARS-CoV-2 l’obiettivo è ridurre questi tempi senza compromettere la sicurezza, che è cruciale dato che deve essere distribuito a molte persone.

    Hamburg: Ci sono molti ostacoli lungo la via. Alcune volte gli sviluppatori hanno una buona idea che non può essere traslata nella realtà, oppure ti ritrovi con degli effetti collaterali inaspettati, problemi di efficacia o con le autorizzazioni.

    Mukherjee: Spiegateci cosa succede con i test sugli uomini.

    Yancopoulos: La fase 1 consiste in piccoli esperimenti  in cui si aumentano le dosi di farmaco di volta in volta fino ad arrivare ad un livello utile senza problemi, di solito ci si impiega alcuni mesi o massimo uno o due anni. Se il risultato è soddisfacente, si procede con la fase 2 su un numero di pazienti maggiore, dimostrando che il farmaco ha degli effetti positivi su chi lo assume. Per esempio, può venire fuori che una medicina abbassa i livelli di colesterolo cattivo ma non significa automaticamente che previene gli attacchi di cuore, una cosa che si può provare solo nella fase 3, di più ampio raggio e altamente monitorata. Prendiamo il farmaco Praluent della mia compagnia: nella fase 2 potevamo mostrare che i livelli di colesterolo si abbassavano in circa duecento pazienti, nella fase 3 abbiamo dovuto dimostrare che preveniva gli attacchi di cuore e aumentava la sopravvivenza su un campione di circa 20.000 pazienti e in un lasso di tempo di cinque anni.

    Mukherjee: La fase 1 che avete appena descritto può durare fino a due anni. Come possiamo velocizzare tutto il processo?

    Hamburg: Non possiamo abbandonare il rigore della scienza, né l’etica di come portiamo avanti gli studi. possiamo però chiedere agli sviluppatori di assumersi più rischi. Nello sviluppo di vaccini, in confronto a quello di farmaci semplici, il ritorno in termini di investimento è solitamente minore del rischio di fallimento. I vaccini sono un bene di pubblica utilità e per questo le compagnie subiscono notevoli pressioni per ridurre il prezzo, con il risultato che raramente ci sono investimenti pari a quelli per un trattamento contro il cancro o un farmaco contro l’ulcera. Ci sono anche questioni di responsabilità da considerare, il vaccino si da a una persona in salute per proteggerla non per trattare un problema esistente, il calcolo tra rischi e benefici spesso non gioca a favore. Per questi motivi si procede un passo alla volta.

    Barouch: Per il Covid-19 gli sviluppatori parlano di procedere in parallelo tra più esperimenti, per quanto possibile. Diverse compagnie farmaceutiche si assumeranno un rischio finanziario non indifferente perché hanno pianificato di produrre da subito su larga scala, anche prima di sapere se il vaccino funziona.

    Una mezza dozzina di candidati potrebbero arrivare alla fase 3, come selezioniamo quelli da portare avanti? Diamo priorità ai vaccini simili a quelli già testati in precedenza o ci rivolgiamo a quelli che possono essere prodotti in massa in breve tempo? La priorità è un’altra questione complessa, devono essere coinvolti la FDA, i governi, gli enti regolatori e gli investitori di tutto il mondo.

    Hamburg: Noi cerchiamo quello che funziona negli primi esperimenti, ma non basta, serve un vaccino che possa essere riprodotto in grande quantità in modo affidabile. Idealmente sarebbe quello che non richiede più dosi per essere efficace e che non ha bisogno di essere conservato in ambiente refrigerato, così può essere facilmente reperibile anche dove le risorse sono minori. Ci sono caratteristiche importanti da valutare che vanno al di là di sicurezza ed efficacia.

    Mukherjee: Un’idea insidiosa che hanno proposto alcuni esperti è sfruttare persone giovani e in salute che assumono il vaccino e si espongono deliberatamente al virus. Quali problemi pone un’ipotesi come questa? 

    Barouch: Per alcune patologie è stata presa in considerazione tale opzione, patologie per le quali esiste già un trattamento efficace, ad esempio per la malaria si fa un uso estensivo di questo modello.

    Mukherjee: Perché non possiamo fare altrettanto per il Covid-19?

    Barouch: Nel caso del Covid-19 non esiste ancora una terapia curativa, per cui se un volontario si ammala gravemente non può essere curato, anzi, non esiste garanzia di salvezza per questa persona.

    Weiss: Non sono un’esperta di etica, ma il mio istinto dice che questo tipo di esperimenti sono troppo pericolosi, i giovani potrebbero ammalarsi e morire di Covid-19 molto rapidamente.

    Mukherjee: Se potessimo sviluppare un farmaco o un anticorpo che mitigasse l’impatto della malattia, dovremmo comunque ragionare sui dubbi etici di una sfida del genere e rimarrebbe il problema di chi si sottoporrebbe volontariamente. Esiste un’intera pagina di storia che narra di minoranze utilizzate come cavie senza consenso. Come facciamo a rassicurare sul fatto che i volontari stiano prestando il loro consenso o che non stiano ricevendo incentivi di sorta? Alcuni potrebbero pensare di acquisire un passaporto immunitario nei confronti della malattia se venissero vaccinati così, senza una terapia a disposizione per salvargli la vita qualora si ammalino. Ci viene richiesta una profonda riflessione sia etica sia scientifica: esiste una strategia che permetta di salvare il paziente?

    Hamburg: Aggiungiamoci che non sappiamo quanto effettivamente la sperimentazione potrà dirci. Se facciamo uno studio con pazienti a basso rischio, i risultati hanno valore per tutti gli altri, ad esempio per gli anziani?

    Barouch: Esatto. Il problema dei test sull’uomo, a parte le questioni etiche, è che un esperimento controllato non dice necessariamente se funzionerà nel mondo reale, per gli anziani o per la popolazione più vulnerabile potrebbero variare le dosi necessarie o addirittura esserci differenze nello stesso virus.

    Mukherjee: Cosa possiamo fare mentre aspettiamo che gli esperimenti procedano?

    Hamburg: Dobbiamo ragionare sull’ampliamento della produzione, un altro punto fondamentale è lavorare con le comunità dove verrà svolta la fase 3. Una parte avverrà negli Stati Uniti, un’altra parte in altre zone del mondo, compresi luoghi dove potrebbero non esserci le stesse infrastrutture che abbiamo qui, che potrebbero aver bisogno di ricercatori e servizi.

    Mukherjee: Teniamo perciò in considerazione tre punti: possediamo tecnologie più nuove e sicure, sappiamo che le proteine virali amplificano la risposta immunitaria normale e il modo in cui misurare quest’ultima nelle persone cui è stata data una dose di vaccino. Tutto ciò speriamo acceleri la fase 1 degli esperimenti – alcuni già partiti tra marzo e maggio – così che possano terminare in circa sei mesi. Rimangono ancora grossomodo 12 mesi di test sull’uomo, e arriviamo così ai 18 mesi. Quanto tempo ci vorrà per distribuire il vaccino in tutto il mondo, una volta che lo avremo?

    Barouch: Una variabile riguarda le infrastrutture e il tempo necessario a produrre in massa le dosi, un’altra variabile separata riguarda la distribuzione vera e propria.

    Hamburg: Avrete sicuramente sentito parlare della decisione di Bill Gates di investire su più produzioni differenti, non sapendo quale arriverà effettivamente al traguardo.

    Mukherjee: Giusto, così si accorciano i tempi del passaggio dalla creazione alla produzione.

    Barouch: Ogni vaccino è fatto in modo diverso, quello basato su RNA è diverso da quello a base di adenovirus vettore. Per una distribuzione rapida, la produzione su larga scala di più vaccini candidati deve iniziare prima che siano dimostrati efficaci.

    Hamburg: Eppure temo potrebbero esserci incomprensioni da parte dell’opinione pubblica, una volta che il vaccino è approvato non diviene automaticamente disponibile il giorno dopo.

    Mukherjee: Spiegaci meglio questo passaggio.

    Hamburg: La produzione deve essere ampia e di alta qualità, se anche solo un elemento della catena distributiva non va come deve – ad esempio irreperibilità di materiali per imballaggio o delle celle frigorifere – il sistema si blocca. Le fasi di produzione, imballaggio, distribuzione e consegna devono funzionare di concerto ai fornitori per far arrivare il vaccino a chi ne ha bisogno.

    Mukherjee: E così torniamo al discorso della distribuzione, e agli studi epidemiologici che ne conseguono.

    Hamburg: Sì, dobbiamo creare un sistema che assicuri una distribuzione improntata alla salute pubblica. La paura che hanno in molti è che ci sarà una grande spinta nazionalistica dei paesi per avere il vaccino da utilizzare entro i loro confini, ma fondamentalmente la sicurezza di ognuno dipende dall’affrontare il virus ugualmente in tutto il mondo.

    Cosa possiamo fare nel frattempo?

    Yancopoulos: Come abbiamo già detto, con tutte le sfide da affrontare, poco importa quanto sforzo ci mettono scienziati e compagnie, potrebbero comunque volerci anni. Ecco perché è importante avere alternative parallele con cui provare a combattere la pandemia, altre cure che facciano da ponte per permettere alla società di ripartire.

    Mukherjee: Cosa possiamo fare ora che ci aiuterà un domani? Come possiamo spostarci dalla situazione attuale in cui versiamo – isolati, in quarantena, con le mascherine e la distanza sociale – verso una terapia che ci accompagni fino al vaccino?

    Yancopoulos: Il mondo si è interessato al farmaco Remdesivir [antivirale sviluppato da Gilead Sciences, n.d.r.] che blocca la replicazione dell’RNA e funziona su molti virus che usano questi meccanismi.

    Mukherjee: Uno studio cinese, pubblicato nella rivista The Lancet, ha portato risultati deludenti: un accenno di miglioramento clinico nei pazienti trattati ma senza valenza statistica, lo spettro di gravità della malattia non era sufficiente per le analisi e il numero di soggetti era basso, 236 pazienti in totale, 158 trattati e 78 sotto placebo. A fine maggio un altro studio del National Institutes of Health pubblicato nel The New England Journal of Medicine ha dimostrato che il Remdesivir potrebbe influire, anche se in modo blando, sul ricovero: il numero di giorni trascorso in ospedale era diminuito, la mortalità ridotta dell’11,9% nel gruppo sotto placebo e del 7,1% nel gruppo sotto trattamento. Di nuovo, uno studio che ha coinvolto un numero troppo esiguo di pazienti, alcuni dei quali con lesioni polmonari lievi e altri sotto ventilazione.

    Hamburg: Non credo ci sia una cartuccia magica, sicuramente non troveremo la soluzione in una medicina ritirata fuori dallo scaffale.

    Yancopoulos: Ce lo insegna la storia, i farmaci riqualificati non funzionano quasi mai da panacee.

    Hamburg: Ogni giorno impariamo qualcosa in più sul virus. All’inizio pensavamo che il Covid-19 fosse una malattia polmonare, poi abbiamo scoperto che molte persone si aggravavano a causa di una risposta immunitaria iperattiva. Ora abbiamo capito che molti altri organi vitali possono essere seriamente compromessi, inclusi reni e cervello, e che qualcosa scatena una sindrome ipercoagulante molto pericolosa. Sembra esserci una preoccupante associazione tra questo nuovo Coronavirus e la sindrome di Kawasaki nei bambini.

    Dobbiamo affidarci alla nostra migliore conoscenza scientifica e al lavoro di virologi come Susan per capire come procedere, per trovare una terapia combinata che colpisca il ciclo del virus in più punti.

    Mukherjee: E l’utilizzo di anticorpi?

    Yancopoulos: Prima ho nominato l’ebola. Negli ultimi 10 o 20 anni abbiamo sviluppato una serie di tecnologie pensate per fare anticorpi contro diverse malattie, alcune furono utilizzate dai nostri scienziati per sviluppare un cocktail di tre anticorpi che bloccassero la proteina GP dell’ebola – l’equivalente della proteina spike – il REGN-EB3, un trattamento molto efficace sui pazienti già malati di ebola come dimostrato dall’OMS. Abbiamo utilizzato le stesse tecnologie per creare rapidamente una versione del cocktail contro la proteina spike del Covid-19, il REGN-COV2.

    Mukherjee: Spiegaci meglio cosa vuoi dire.

    Yancopoulos: Puoi pensarlo come una specie di vaccino temporaneo. Invece di aspettarne uno che stimoli la produzione di anticorpi, li creiamo e iniettiamo direttamente nelle persone.

    Mukherjee: A livello di tempistiche?

    Yancopoulos: Per l’ebola abbiamo impiegato nove mesi dall’inizio del progetto ai test clinici. Con il Covid-19 abbiamo quasi dimezzato i tempi. Faremo tre tipi di esperimenti sull’uomo: il primo, la profilassi, in cui daremo il REGN-COV-2 a pazienti ad alto rischio non ancora infetti per bloccare l’infezione in principio – esattamente come un vaccino, senza però indurre l’immunità permanente. Poi lo somministreremo a pazienti infettati di recente, asintomatici e/o malati in forma lieve, e vedremo di curarli rapidamente ed evitare che la malattia raggiunga livelli tanto critici da richiedere il ricovero. Infine daremo il REGN-COV2 ai pazienti gravi, già ricoverati con ventilazione sperando di salvarli.

    Mukherjee: Quanto durerebbe la protezione di questi anticorpi?

    Yancopoulos: Ogni iniezione dovrebbe durare almeno un mese, se non di più. Un’altra storia particolarmente promettente arriva dalla Cina: pare che fermare l’infiammazione polmonare causata dal Covid-19 bloccando il fattore interleukin-6, un elemento chiave dell’artrite reumatoide, potrebbe essere d’aiuto. Ad ogni modo né il Remdesivir il interleukin-6-bloccante sono soddisfacenti in tutto e per tutto, sono solo “ritardanti”, eppure ogni vita salvata è importante.

    Mukherjee: Gli effetti di cui parli potrebbero essere una conseguenza del fatto che i test sono fatti su pazienti più o meno malati, già ricoverati magari. Teoricamente, per ogni malattia infettiva usare antibatterici, antivirali o anticorpi nello stadio iniziale del decorso è una buona mossa. Esperti come Francisco Marty, un infettivologo al Brigham and Women’s Hospital di Boston, affermano che il campione utilizzato è sbagliato per lo studio sul farmaco perché dal momento che si ha infiammazione polmonare e lesioni dei tessuti, uccidere il virus non è più sufficiente, è anzi troppo tardi. Una seconda serie di test dovrebbe valutare se il farmaco funziona meglio allo stadio iniziale, ad esempio non appena i livelli di ossigeno iniziano a scendere, così il paradigma potrebbe essere convertito: invece di stare in quarantena a casa, si assumerebbe subito il farmaco. Esistono già prove a riguardo: i pazienti che da subito prendono il Remdesivir non sviluppano la malattia polmonare in modo fulminante. Ci sono trattative in corso con la Gates Foundation per avviare il nuovo ciclo di esperimenti.

    C’è poi la questione dei farmaci combinati, antivirali combinati agli anticorpi, anche se logisticamente è molto più complicato perché sono necessarie iniezioni intravenose, bisognerebbe rivolgersi a centri trasfusionali. Sarebbe in ogni caso una vergogna se rinunciassimo ad un farmaco valido per un errore nella scelta dei pazienti su cui testarlo, ogni volta che una medicina a disponibilità limitata viene data ad un paziente che non ne trae beneficio è sprecata.  Cosa pensate della combinazione di farmaci?

    Weiss: Potrebbero rivelarsi utili ma al momento sono ancora in fase di valutazione. Diversi ricercatori stanno testando tutte le tipologie di farmaci contro il Coronavirus, approvati e non dall’FDA. Molti hanno come obiettivo il ciclo riproduttivo del virus – nello specifico, un enzima necessario sia alla replica che all’invasione della cellula ospite. Credo che svariati accoppiamenti di farmaci potrebbero inibire il virus in tal senso ma, d’altro canto, rivelarsi  insufficienti nel caso degli asintomatici: potremmo aver bisogno di un antivirale per lo stadio iniziale e di un antinfiammatorio per la “tempesta di citochina” [molecola prodotta dall’organismo in risposta ad uno stimolo, n.d.r.] delle fasi successive.

    Mukherjee: Esatto, solo perché una combinazione inibisce il virus in una capsula di Petri non significa che può subito diventare un antivirale per l’uomo, potrebbe addirittura essere tossico, degradato, la dose troppo alta e impossibile da gestire. Credo però che mentre aspettiamo il vaccino, procedere con i test anche per questi farmaci sia una mossa ragionevole. Da quello che ho potuto vedere, c’è una volontà urgente e inusuale di collaborare tra gli scienziati.

    Hamburg: Straordinaria, molta più apertura di quanta non ce ne fosse all’epoca dell’Ebola, del virus Zika o dell’H1N1. Gli enti regolatori del mondo si stanno mettendo insieme per ridurre le barriere così le compagnie non devono avere a che fare con standard o priorità ogni volta differenti e le menti migliori possono lavorare insieme.

    Weiss: Neanche io ho mai visto una cosa simile. La nostra richiesta al Centro di controllo e prevenzione delle malattie per avere il virus, pericolosità biologica di livello 3, è stata approvata in meno di due giorni, abbiamo ricevuto due proposte per il trasferimento del materiale, che dovevano essere firmate da una serie di organi istituzionali e avvocati, in poche ore. In passato ci sarebbero volute settimane delle settimane. Un segnale che amministratori e scienziati stanno facendo uno sforzo extra per facilitare il tutto.

    Barouch: Una cosa così è destinata a fare eco. Dal punto di vista della ricerca, non ho mai testimoniato così tanta condivisione di dati, protocolli e idee tra gruppi accademici, industrie, governi e operatori sanitari in prima linea.

    Yancopoulos: Ho notato una collaborazione senza precedenti da parte di tutte le forze in campo. Posso chiamare la mia controparte alla Pfizer [azienda famaceutica, n.d.r.], Mikael Dolsten, e la sua prima domanda è: “Cosa possiamo fare per aiutare?”. Scienziati, accademici, ingegneri biotecnici e compagnie farmaceutiche, dottori e operatori di ogni dove, FDA compresa stanno unendo le forze: le cose succedono ad una velocità senza precedenti perché abbiamo capito di avere tutti un nemico comune.

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